SENTENZE: L’amministratore perde il compenso se non lo richiede (Il Sole 24 Ore)

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Tribunale di Roma. È rinuncia tacita
L’amministratore perde il compenso se non lo richiede

Perde il diritto al compenso l’amministratore di una società che svolge l’incarico senza chiedere il pagamento di quanto gli è dovuto. È questa la conclusione a cui è giunto il Tribunale di Roma, sezione specializzata in materia d’impresa (presidente Mannino, relatore Bernardo), in una sentenza dello scorso 4 maggio.
Con delibera del luglio 2013, l’assemblea dei soci di una srl aveva revocato l’amministratore unico dalle sue funzioni. L’uomo si è quindi rivolto al giudice, sostenendo di aver svolto l’incarico in modo diligente per 16 anni senza ricevere alcun corrispettivo; ha quindi domandato la condanna della società al versamento di 303mila euro per compensi, nonché di altri 18mila euro per risarcimento del danno dovuto alla revoca senza giusta causa né preavviso. Dal canto suo, la srl ha chiesto il rigetto della domanda, sostenendo che l’amministratore non aveva mai chiesto una retribuzione.
Il Tribunale ha respinto le istanze dell’attore. La sentenza afferma che dall’articolo 2389 del Codice civile si ricava che l’ordinamento riconosce agli amministratori delle società di capitali il diritto a un compenso per l’attività svolta in esecuzione del mandato ricevuto. Si tratta di un diritto soggettivo perfetto, «dovendosi presumere – aggiunge il Tribunale, richiamando la sentenza 16764/2005 della Cassazione – che l’attività professionale sia svolta a titolo oneroso». Peraltro, non esiste un compenso minimo e dunque «gli amministratori possono accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguato al lavoro svolto», così come possono rinunciare al compenso in maniera «tacita, purché inequivoca».
Inoltre, se lo statuto nulla dispone, la determinazione dell’importo spetta all’assemblea dei soci. Se questa si rifiuta di deliberare, l’amministratore può ricorrere al giudice.
Nel caso in esame, lo statuto della srl prevedeva che i soci avrebbero potuto assegnare un compenso annuo agli amministratori. Tuttavia, l’assemblea non aveva previsto un corrispettivo né l’attore, negli anni in cui aveva ricoperto l’incarico, aveva chiesto una delibera per l’attribuzione di emolumenti. Si deve dunque ritenere – conclude il Tribunale – che l’amministratore «abbia manifestato un comportamento concludente, ponendo in essere, di fatto, una rinunzia tacita all’assegnazione di compensi per l’attività svolta» in favore della società.
Quanto alla domanda di risarcimento, il Tribunale ricorda che, in base all’articolo 2383 del Codice civile, gli amministratori delle società di capitali sono revocabili in qualunque tempo, ma hanno diritto al risarcimento dei danni se tale revoca è senza giusta causa. In questo caso, «per la liquidazione dei relativi danni – prosegue la motivazione, citando la sentenza 23557/2008 della Corte suprema – deve procedersi secondo i criteri generali di cui agli articoli 1223 e 2697 del Codice civile, trattandosi di vicenda non equiparabile alla risoluzione di un contratto di lavoro subordinato».
Secondo il Tribunale, «il danno patito dall’amministratore revocato senza giusta causa coincide con i compensi che lo stesso avrebbe percepito» se avesse mantenuto la funzione. Di conseguenza, nessun importo si può liquidare a titolo di risarcimento, giacché l’attore aveva «tacitamente accettato di svolgere il proprio incarico gratuitamente». Antonino Porracciolo

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