Professionisti. Pesa il no al socio di capitale e alla multidisciplinarietà
30 dic. – Sulle associazioni tra professionisti e le società tra avvocati il nuovo Statuto è tutto da rifare. Gli articoli 4 e 5 della riforma dell’ordinamento forense riescono ad accomunare nel giudizio negativo i partner dei maggiori studi legali presenti in Italia e i giovani avvocati che uno studio lo sognano. Il limite più evidente è quello di aver detto troppi no: al socio di capitale, al manager e alle società multidisciplinari. Il risultato è una realtà praticamente inalterata che aumenta le distanze tra “poveri” e “ricchi”. Il primo a pensarla così è Giuseppe Scassellati Sforzolini partner dello studio Cleary Gottlieb Steen & Hamilton. «Gli articoli sulle società tra avvocati e le associazioni professionali sono la parte più infelice della riforma, frutto di gravi errori. Non parlo solo dell’esclusione del socio di puro capitale – sottolinea Scassellati Sforzolini – ma anche degli aspetti che non erano controversi. Il più eclatante è scelta di negare la società multidisciplinare, che crea dubbi di costituzionalità e disarmonia con le norme comunitarie, visto che il divieto riguarda solo gli avvocati».
Discutibile anche il semaforo rosso al socio capitalista. «Il capitale esterno, che a noi non serve – spiega Giuseppe Scassellati – introdotto con le dovute cautele, è uno strumento per valorizzare i piccoli studi. Al contrario questa riforma fa risorgere forme associative, abolite lo scorso anno, retaggio delle leggi razziali del ’39. Alla fine ci rimette il cliente quando, come nel caso specifico, si creano forme si associazione anche complessa, senza una disciplina di denominazione né di responsabilità». Sulle nuove società, che sono tali solo di nome ma non di fatto, mette l’accento Aristide Police partner dello studio Clifford Chance. «Le deroghe al modello societario sono così tante che sembra improprio parlare di società tra avvocati – sottolinea Police – è possibile che i decreti correttivi contengano dei ripensamenti».
Una norma a impatto zero anche per lo studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners. «Non ho mai capito lo scopo di questa riforma – confida Francesco Gianni – per noi le cose non cambiano, mentre il problema dei giovani è l’accesso alla professione e l’esigenza è quella di un fisco agevolato. I clienti non scelgono l’avvocato in base alla forma giuridica. Sono delle misure che non servono, quando c’è un avvocato in ogni condominio con un’economia in recessione». È “altruista” anche l’opinione di Fabrizio Arossa socio dello studio Freshfields. «Ai grandi studi il socio di capitale non interessa – ammette Arossa – il nostro con un miliardo e mezzo di sterline di fatturato si autofinanzia. Personalmente non capisco però l’ostilità, di cui si sono fatti portavoce gli organi rappresentativi, espressa dai meno giovani tra i titolari dei piccoli studi. È una battaglia miope e di retroguardia che impedisce ad alcuni di fare il salto dimensionale che da soli non possono fare. Il socio di capitale offrirebbe – conclude Arossa – anche la possibilità di investire nella class action, preclusa a chi non può permettersi il rischio d’impresa. Un autobus della giustizia che, per mancanza di finanziamenti, in Italia è rimasto fermo».
Delle criticità è consapevole il presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati Dario Greco. «Abbiamo voluto la legge perché era il male minore rispetto al Dpr professioni – spiega Greco – ma ora vogliamo le modifiche a partire dalla possibilità di costituire delle società multidisciplinari. Dobbiamo uscire dai palazzi di giustizia».
Scelte perdenti anche per il segretario dell’Associazione nazionale forense Ester Perifano: «Se in questo momento di crisi, per avventura, ci fosse stato qualcuno disponibile a investire in una struttura di servizi professionali legali organizzata modernamente, questi avrebbe dovuto essere incoraggiato e non sdegnosamente rifiutato». Patrizia Maciocchi
FONTE: Il Sole 24 Ore