CONCORRENZA: L’Antitrust contro i notai sulle cessioni immobiliari (La Repubblica – Affari e Finanza)

LA REPUBBLICA – Affari e Finanza

“Concorrenza volano del Pil” ma la riforma è incompiuta

DAI GOVERNI DEGLI ULTIMI 20 ANNI (ATTUALE COMPRESO) ALL’FMI, TUTTI D’ACCORDO: IL MERCATO RICEVEREBBE UNA GRANDE SPINTA SE FOSSE REALIZZATO IL PROCESSO DI LIBERALIZZAZIONE DI SERVIZI E PRODOTTI DEI SETTORI NON COMMERCIABILI SERVIREBBE UN’ACCELERATA

Milano. Le liberalizzazioni? A parole, da oltre un ventennio, sembrano un dogma per l’Italia. Ma di fatto non lo sono. Eppure tutti i governi che si sono succeduti in questi anni, nessuno escluso, ci hanno ciclicamente ripetuto quanto sarebbe importante per il nostro Pil se il mercato si aprisse concretamente alla concorrenza. In primis, quello dei servizi e dei prodotti dei settori non commerciabili. A ricordarcelo, di recente, è stato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che ha quantificato i risparmi “fino ad un punto di Pil entro il 2020”. A ribadirlo, a stretto giro, è stato anche il ministero dello Sviluppo economico il quale ha pubblicamente dichiarato che l’apertura dei mercati costituirebbe un importante contributo per “la credibilità del Paese, ma soprattutto per il suo rating, grazie ad una maggiore sostenibilità del debito con un più elevato tasso di crescita potenziale dell’economia”. Non solo: passando in rassegna il report 2015 sull’attività del ministero dello Sviluppo economico alla voce “concorrenza” si scopre che dalla sola liberalizzazione del mercato dei servizi, la crescita del Pil sarebbe del 3,3% in 5 anni, porterebbe a +4,16% di consumi, +3,69% di investimenti, +1,66% salari reali, +4,94% di produttività del lavoro. Un vero e proprio tesoretto: calcolando che un punto di Pil equivale a 16-17 miliardi, si tratta di oltre 50 miliardi. Al di là dei numeri, la musica non cambia se si prendono come buone le considerazioni del Fondo monetario internazionale (Fmi) il quale ha stimato che un’accelerazione delle riforme sulla concorrenza potenzialmente porterebbe in dote al Pil del nostro Paese una crescita aggiuntiva del 13%. Che potrebbe arrivare fino al 20%, nel caso in cui si intervenisse in modo profondo e immediato sulla fiscalità. Ad immaginare uno scenario di questo tipo è stato uno studio di Lusine Lusinyan e Dirk Muir del Fmi che risale al 2013 ma che ancora oggi è molto attuale perché, nonostante il nostro Paese abbia registrato nel 2015 una leggera ripresina, il suo andamento economico negli ultimi anni non è stato al passo con quello degli altri paesi. Anzi, analizzando l’ultimo decennio, il Belpaese ha avuto una crescita media inferiore allo 0,5%, mentre nell’Unione europea ha superato l’1% e nei Paesi del G7 l’1,25%. Il Fmi attribuisce la debole performance a vari fattori strutturali tra i quali proprio la concorrenza limitata nei mercati dei prodotti, specialmente nei settori non commerciabili. Su questo punto, l’ammonimento del Fondo è perentorio: “Le riforme vanno attuate, e poi rafforzate con tempestività”. Ammonimento, a quanto pare, che non è bastato al governo per imprimere una svolta radicale alla sua politica in materia di concorrenza. Non a caso, nonostante l’esecutivo abbia dimostrato grande determinazione su alcune importanti riforme — in primis, quella costituzionale e Jobs Act — sulla strada impervia delle liberalizzazioni ha preferito frenare. Emblematico, in questo senso, il capitolo della mancata apertura al mercato dei farmaci di fascia C. Tutti gli emendamenti in materia sono stati bocciati, anche se un provvedimento di questo tipo non rappresentava un costo per lo Stato e avrebbe consentito di portare benefici per i consumatori con risparmi stimati intorno ai 500 milioni di euro. Se è vero che l’attuale governo è stato il primo a recepire le indicazioni dell’Antitrust con una legge ad hoc (il ddl concorrenza attualmente in Senato), è altrettanto vero che ad oggi sembra comunque prevalere lo status quo visto che la legge sulla concorrenza uscita da Palazzo Chigi nel febbraio 2015 è rimasta per mesi impantanata in Parlamento tra audizioni, emendamenti, fughe in avanti e precipitose marce indietro. A scapito della libertà del mercato e dei consumatori. Tradotto: nonostante i buoni propositi, i fatti dimostrano il contrario. Alcuni esempi macroeconomici: in Italia le tariffe dell’energia elettrica superano del 50% la media europea, specialmente per quanto concerne gli utenti industriali. Negli ultimi anni le tariffe delle utility sono aumentate 2-3 volte di più rispetto a quelle degli altri paesi della zona euro, specialmente nei settori non soggetti a una regolamentazione indipendente. Eancora: nel mercato del lavoro, nonostante il Jobs Act, le persone di 15-24 anni hanno una possibilità leggermente superiore al 20% di trovare un postodi lavoro, mentre nella zona euro la percentuale supera il 35%, e per le donne di età compresa tra i 40 e i 64 anni la probabilità di rimanere inattive si avvicina al 50%. Anche se probabilmente la situazione più clamorosa si è verificata nel campo delle assicurazioni sui mezzi di trasporto. Secondo uno studio della Cgia, pubblicato un anno fa, dal 1994 al 2014, le tariffe sono aumentate del 189,3% a fronte di un incremento dell’inflazione del 50,1%. In questi 20 anni le assicurazioni sono aumentate 3,8 volte in più del costo della vita. Altrettanto preoccupante è il quadro emerso dall’analisi dei servizi bancari/finanziati. Sempre dal 1994 al 2014, le tariffe sono cresciute del 115,6%, mentre l’inflazione “solo” del 50,1%. Ciò vuol dire che le prime sono aumentate di 2,3% volte in più rispetto alla seconda. Vito de Ceglia

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