CASSAZIONE: Sul lavoro niente telecamere (Italia Oggi Sette)

ITALIA OGGI SETTE

Una sentenza della Cassazione sulla responsabilità del datore nei controlli a distanza
Sul lavoro niente telecamere
Serve sempre l’autorizzazione dei sindacati o della Dtl

lun.12 – È sempre reato il controllo a distanza dei lavoratori con telecamere installate senza l’accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa.
La Corte di cassazione, con la sentenza della terza sezione penale n. 51897, depositata il 6 dicembre 2016, ha stabilito che il Jobs Act non ha fatto venir meno la responsabilità penale del datore di lavoro inadempiente.
Il caso in questione ha riguardato una stazione di distribuzione di carburante, in cui il datore di lavoro ha installato alcune telecamere. Le telecamere erano collegate a un monitor sistemato nell’ufficio e permettevano il controllo dei lavoratori, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali e in mancanza di provvedimento della direzione territoriale del lavoro.
Per questi fatti, il datore di lavoro è stato condannato per il reato previsto dagli articoli 4, comma 2, e 38 della legge 300/1970, in relazione agli articoli 114 e 171 del Codice della privacy (dlgs 196/2003).
La vicenda è arrivata in cassazione, che ha affrontato la questione del rapporto tra Jobs Act e Statuto dei lavoratori. In particolare ci si è posto il problema se continua a essere reato l’installazione di telecamere senza accordo sindacale.
In effetti la formulazione originaria dell’articolo 4, comma 1, della legge 300/1970 stabiliva il divieto espresso di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei prestatori di lavoro.
La violazione della norma era inizialmente sanzionata dall’articolo 38, comma 1, dello Statuto dei lavoratori; successivamente dall’articolo 171, comma 1, del Codice della privacy.
Successivamente è intervenuto l’articolo 23 del decreto legislativo 151/2015 o Jobs Act, che ha modificato l’articolo 4 della Legge n. 300 del 1970. In particolare l’attuale articolo 4 non prevede più un divieto assoluto di controllo a distanza e cioè quello del vecchio primo comma.
Il nuovo articolo 4, poi, contiene una nuova disciplina complessiva, che tiene conto di tutti gli strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e di quelli utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa.
Il citato articolo 23 ha modificato anche l’articolo 171 del codice della privacy, precisando che «la violazione dell’articolo 4, primo e secondo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’articolo 38 della legge n. 300 del 1970».
La Cassazione spiega che la modifica dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori prende atto che le nuove tecnologie, soprattutto telematiche, hanno superato la distinzione tra strumento deputato al controllo del lavoratore e strumento di lavoro: molti strumenti telematici costituiscono nell’attuale sistema di organizzazione del lavoro «normali» strumenti per rendere la prestazione lavorativa, pur realizzando nello stesso tempo un controllo continuo e capillare sull’attività del lavoratore.
Anche se il quadro normativo è rinnovato, la cassazione attesta che resta fermo il principio per cui devono essere escluse quelle manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, sono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore.
Con la rimodulazione dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, scrive la cassazione, è solo apparentemente venuto meno il divieto esplicito di controlli a distanza.
Anzi, non si può quindi dedurre il superamento del divieto generale di detto controllo dalla mancanza, nel nuovo articolo 4, di una indicazione espressa, come era nel comma 1 del previgente articolo 4, di un divieto generale di controllo a distanza sull’attività del lavoratore. La nuova formulazione, secondo la sentenza in esame, ha solamente adeguato l’impianto normativo alle sopravvenute innovazioni tecnologiche e, quindi, ha mantenuto fermo il divieto di controllare la sola prestazione lavorativa dei dipendenti. L’uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo può essere giustificato esclusivamente a determinati fini, cioè per esigenze organizzative e produttive; per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e alle condizioni normativamente indicate.
E non si possono trarre conclusioni diverse nemmeno citando la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (n. 61496/08 del 12 gennaio 2016, impugnata davanti alla Grande Camera), che ha affermato che non viola la privacy il datore di lavoro che effettua un monitoraggio delle mail e degli altri mezzi di comunicazione aziendali, utilizzati dai lavoratori, al fine di garantire il giusto funzionamento della società e di controllare che i dipendenti, durante l’orario di lavoro, svolgano la loro attività lavorativa.
Secondo la cassazione, invece, sussiste continuità di tipo d’illecito tra la previgente formulazione dell’articolo 4 della legge n. 300 del 1970 e la rimodulazione del precetto intervenuta a seguito del dlgs n. 151 del 2015.
Continua a costituire reato, dunque, l’uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, senza la procedura concertativa o la sostitutiva autorizzazione amministrativa. Antonio Ciccia Messina

Foto del profilo di Andrea Gentile

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