CASSAZIONE: Sui virus trojan doppio via libera della Cassazione (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE

Intercettazioni. Dopo le Sezioni Unite
Sui virus trojan doppio via libera della Cassazione

MILANO. Nelle intercettazioni ambientali mediante i virus spia trojan horse, l’autorizzazione del Gip può riguardare la sola tecnica di captazione e non deve individuare necessariamente lo strumento a cui applicarla (tablet, pc, oppure cellulare). L’invadenza della tecnica di intercettazione comunque – considerata la possibilità di monitorare continuativamente l’indagato – è compatibile con il dettato costituzionale e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La Sesta penale della Cassazione (sentenza 27404/16, depositata ieri), torna sul tema della nuova frontiera delle intercettazioni – i virus informatici autoinstallanti – inserendo qualche corollario alle Sezioni Unite del 28 aprile scorso, di cui si attendono le motivazioni dopo la contestuale informazione provvisoria (si veda Il Sole 24 Ore del 30 aprile).
Nel solco del recente dispositivo, la Sesta conferma la piena liceità dell’«intrusore informatico» quando si indaga sulla criminalità organizzata (nel caso specifico è il clan mafioso di Porta Nuova a Palermo) con l’importante sottolineatura «a prescindere dalla specificazione del luogo in cui la captazione avviene». In sostanza le “ambientali” contro i clan – perchè di intercettazioni ambientali tra presenti si tratta in questi casi, e non invece di “telefoniche” – beneficiano di una territorialità molto allargata e non richiedono il sospetto che nei luoghi ascoltati si stia commettendo un reato (limite invece di cui soffrono le normali “ambientali”). Sotto questo aspetto la decisione della Sesta va contro il precedente dello scorso anno della medesima corte (27100/15) e si allinea alle recenti Sezioni Unite, secondo cui il trojan è utilizzabile contro tutte le associazioni criminali, compreso quelle a finalità terroristiche, con il solo limite dei reati commessi in “semplice” concorso di persone – dove resta vietato.
Ma nella sentenza della Sesta c’è anche un ulteriore, importante postulato. Una volta aperto il canale trojan su un dispositivo, scrive il relatore, questo continuerà a operare anche se il “portatore” del dispositivo stesso finisce nel frattempo in carcere. I difensori contestavano la circostanza che l’indagato, a cui era stato violato lo smartphone dalla Procura, era stato arrestato dopo pochi giorni, ma il virus aveva continuato a lavorare finendo per incastrare la moglie, considerata la reggente del clan mafioso e narcotrafficante. Per i giudici la ultrattività del telefono hackerato non rappresenta un’«autorizzazione in bianco» ma al contrario significa «che l’ambito di operatività dell’autorizzazione avrebbe dovuto essere commisurato alla pertinenza dello strumento in funzione della prova del reato associativo».
Alessandro Galimberti

Foto del profilo di Andrea Gentile

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