CASSAZIONE: Professioni, la società non salva dall’esercizio abusivo dell’attività (Italia Oggi)

ITALIA OGGI

Professioni, la società non salva dall’esercizio abusivo dell’attività

Rischia il carcere chi, senza titolo abilitativo, svolge l’attività di commercialista o consulente del lavoro anche per mezzo di una società. La stretta arriva dalla Suprema Corte di cassazione che, con la sentenza numero 26617 del 27 giugno 2016, ha confermato la condanna a carico di un uomo che, per mezzo della sua società, faceva consulenza fiscale e del lavoro. La vicenda riguarda un uomo di Genova che aveva costituito una società inserendo nell’oggetto sociale tutte le attività tributarie normalmente riservate ai dottori commercialisti: elaborazione dati, raccolta di fatture attive e passive, registrazione corrispettivi di costi e ricavi, offerte. Il tutto senza alcuna abilitazione né titolo di studio. Per questo erano scattate le accuse per esercizio abusivo della professione. Il Tribunale e la Corte d’Appello di Genova lo avevano condannato. Ora la decisione è stata resa definitiva in sede di legittimità. La sesta sezione penale ha motivato sul punto spiegando che il richiamo svolto dalla difesa nel ricorso, a una vecchia sentenza resa dalla stessa Cassazione (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011 dep. 23/03/2012), risulta del tutto eccentrico rispetto all’oggetto del giudizio. Nella specie, infatti, l’uomo ha incontestabilmente svolto, in maniera professionale e continuativa, una serie di atti che sono univocamente individuati, sulla scorta della normativa applicabile al periodo in contestazione, di competenza specifica di professione per cui non era in possesso di titolo abilitativo, sicché proprio in forza dei principi evocati dalla sentenza richiamata, sussistono entrambe le condizioni che sostengono l’accertamento della consumazione del reato contestato. Tali elementi risultano con chiarezza posti in luce nella sentenza della Corte d’Appello ligure, attraverso il richiamo alle acquisizioni processuali con il cui contenuto il ricorrente non si confronta, riproponendo censure di merito. Ma non è ancora tutto. Per gli Ermellini, nello stesso senso eccentriche rispetto a quanto accertato nella sentenza risultano le deduzioni svolte con riferimento allo svolgimento di attività tipiche della funzione di consulente del lavoro, per le quali anche l’interessato era privo di titolo abilitativo; rispetto ad esse nel ricorso ci si limita alla pretesa di una estemporaneità dell’attività, non riconducibile allo svolgimento di alcuno specifico atto riservato al professionista, contrastata da quanto accertato in sentenza sulla base di individuati elementi di prova, i cui risultati non sono sottoposti a contestazione. Ora l’uomo dovrà scontare la pena e versare una ammenda. In più è stato anche condannato a rifondere le spese processuali. La Procura generale della Cassazione, nell’udienza che si è tenuta al Palazzaccio lo scorso 24 maggio, ha chiesto al Collegio di legittimità di dichiarare inammissibile il gravame presentato dalla difesa confermando così l’intero impianto accusatorio. Debora Alberici

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