CASSAZIONE: L’accusa non provata costa il posto in azienda (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE

Responsabilità. La denucia di una condotta illegale
L’accusa non provata costa il posto in azienda

La responsabilità “penale” delle società, disciplinata dal decreto 231/01, ha strette connessioni con il diritto del lavoro. Su alcune di esse è bene riflettere, perché forse alcune soluzioni tradizionali vanno ripensate. È questo lo spunto che si trae dalla lettura delle sentenze 10943 del 26 maggio 2016 della Cassazione e 564 del 22 aprile 2016 della Corte d’appello di Milano.
Con la prima, la Cassazione confermava il licenziamento per giusta causa impugnato da un lavoratore che aveva denunciato all’organismo di vigilanza la sovrafatturazione operata dalla società da cui dipendeva, ai danni di un Policlinico. Il dipendente si era difeso con le risultanze delle indagini poi scaturite in sede penale (presumibilmente comprovanti i fatti), ma la Cassazione aveva evidenziato come il licenziato avesse riferito all’organismo di vigilanza che la sovrafatturazione sarebbe stata autorizzata da un dirigente della società, circostanza non provata e irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario che regge il rapporto di lavoro.
Che accusare di reato i propri superiori, senza prove e rivolgendosi a terzi, conduca al licenziamento per giusta causa corrisponde alla giurisprudenza e anche a ragionevolezza. Quel che sorprende è che la Cassazione non abbia sentito il bisogno di escludere che le accuse fossero mosse in buona fede (o riferire se i giudici di merito lo avessero accertato) e che, per quanto emerge dalla sentenza, nemmeno il ricorrente si fosse soffermato sul punto. Affinché un modello di prevenzione dei reati funzioni è necessario che l’organismo di vigilanza abbia la maggior trasparenza possibile circa il funzionamento della società. Il dolo o la mala fede dovrebbero costituire il limite oltre cui trovare le sanzioni disciplinari.
La Corte d’appello di Milano ha confermato, invece, la reintegra di un dipendente di una quotata, licenziato per giusta causa per aver collaborato a vendite triangolate in cui la società acquistava e rivendeva alcuni prodotti al solo scopo di aumentare artificiosamente il fatturato. La Corte osservava, infatti, che il comportamento del licenziato era il frutto delle indicazioni dei superiori e costituiva un fenomeno diffuso, tanto da aver dato vita a numerosa casista giurisprudenziale.
Anche in questo caso sorprende che nella sentenza non si esamini se la società avesse in effetti comunicato ai dipendenti il divieto di certi comportamenti, con l’obbligo di segnalarli agli organi di controllo interno e anche se il divieto fosse stato poi accompagnato da indicazioni opposte di alcuni dirigenti. È corretto infatti che non possa essere sanzionato il dipendente che ponga in essere comportamenti conformi alle direttive ricevute, ma c’è da chiedersi se ciò possa valere sempre, anche in presenza di direttive confliggenti, di comportamenti vietati dalla legge e in presenza di meccanismi ispettivi e di segnalazione delle violazioni.
È per questo che, alla luce della sempre maggior sensibilità per le esigenze di compliance in ogni campo, i principi che hanno a lungo informato l’irrogazione di sanzioni disciplinari dovrebbero tener conto, da un lato, della esigenza di verificare e tutelare la buona fede nel far uso dei meccanismi interni di denuncia di comportamenti vietati (in tal senso va il Ddl 2208 in corso di esame al Senato) e, dall’altro, consentire di sanzionare le contravvenzioni ai regolamenti aziendali (quantomeno se non segnalati) anche se in presenza di indicazioni contrarie da parte dei superiori.
Uberto Percivalle

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