CASSAZIONE: False fatture, prova individuale (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE

Cassazione/1. Limiti alla chiamata in causa per reato di dichiarazione fraudolenta nel caso di grandi aziende
False fatture, prova individuale

Nel reato di dichiarazione fraudolenta per utilizzo di fatture false, se l’azienda è di grandi dimensioni occorre verificare la concreta consapevolezza del legale rappresentante ai fatti illeciti, poiché le condotte illecite potrebbero essere imputabili esclusivamente a terzi soggetti. Ad affermare questo principio è la Corte di cassazione con la sentenza n. 38717 depositata ieri.
Il legale rappresentante di una società era stato condannato dal Tribunale alla pena di un anno e 8 mesi di reclusione per il reato di dichiarazione fraudolenta per utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. L’articolo 2 del Dlgs 74/2000 punisce con la reclusione da 18 mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’Iva indichi in una delle dichiarazioni elementi passivi fittizi documentati da false fatture.
La Corte di appello aveva confermato la decisione che era poi stata impugnata per cassazione dall’imputato. Tra i diversi motivi, il contribuente aveva lamentato che nel grado di merito non era stata assunta una prova ritenuta decisiva: la deposizione di alcuni testimoni che avrebbero potuto scagionarlo. Tra questi vi era il responsabile di una delle diverse sedi operative della società, diretto responsabile delle fatture utilizzate.
La Suprema Corte ha ritenuto fondata la doglianza. I giudici hanno rilevato che alla luce delle allegazioni difensive, circa la riferibilità dei fatti ad altro soggetto operante in sede diversa e separata della stessa società, non poteva ritenersi sufficiente la «mera preposizione formale alla legale rappresentanza».
Considerando le dimensioni particolarmente rilevanti dell’azienda, era necessario un accertamento in concreto della sua consapevolezza della fittizietà delle fatture utilizzate ai fini della presentazione di una dichiarazione fraudolentemente falsa. Occorreva così riscontrare, attraverso l’assunzione dei testi, se tale consapevolezza sussistesse o meno. La Corte territoriale si era invece limitata ad affermare che il legale rappresentante, a prescindere dalle dimensioni aziendali, aveva interesse a evadere e proprio per il beneficio conseguito, non poteva dirsi ignaro di tali illeciti.
La pronuncia appare importante poiché dà rilievo alla consapevolezza e non solo al dato formale legato alla firma della dichiarazione. Tale reato, infatti, si consuma con la presentazione della dichiarazione nella quale sono indicati i valori derivanti dai documenti fittizi. Secondo un orientamento pressochè consolidato della Suprema Corte, la responsabilità penale, è dunque attribuibile al soggetto che materialmente sottoscrive la dichiarazione, con la conseguenza che una volta provata la falsità del documento (Cassazione 9448/2016), è il legale rappresentante ovvero l’imprenditore a risponderne (32348/2015).
Secondo questi principi è, invece, possibile derogare a tali automatismi attraverso prove idonee che escludano la responsabilità del rappresentante legale. Questi, a ben vedere, nelle società in cui non è anche socio, non avrebbe alcun interesse immediato a evadere. Laura Ambrosi

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