CARCERI: Custodia cautelare, è allarme: nel limbo un detenuto su tre (Il Mattino)

IL MATTINO

Custodia cautelare, è allarme: nel limbo un detenuto su tre

“È stato atroce, Francesca. Uno schianto che non si può dire. Ancora oggi, a sei giorni dall’arresto, chiuso in questa cella 16 bis, con altri cinque disperati, non so capacitarmi, trovare un perché. Trovo solo un muro di follia”. Sono trascorsi trentatré anni, da quel grido di dolore che Enzo Tortora lanciò dal carcere di Regina Coeli. Sette mesi di lunga prigionia, che lo videro linciato e crocifisso da media e magistrati senza uno straccio di prova. Una tortura, subita da innocente, contro la quale “non poter fare nulla, se non aspettare”. Una tortura, che da quel 23 giugno del 1983 in cui varcò la soglia del carcere, perdurò fino a quel 13 giugno 1987 in cui la Corte di Cassazione pronunciò la sua piena assoluzione. E che, ancora oggi, si chiama abuso della custodia cautelare.

A quasi 30 anni dalla morte di Tortora, eccessi e anomalie della carcerazione preventiva continuano a sovvertire in un golpe silenzioso i dettami della nostra Costituzione. Agli antipodi del diritto che presume innocente ogni cittadino fino a condanna definitiva, chi vive detenuto in attesa di giudizio è presunto colpevole fino a prova contraria. Di possibili Tortora, nelle patrie galere ce ne sono a migliaia: erano ben 26.804 i detenuti in custodia cautelare secondo il rapporto Antigone del 2012. Ventiseimila su 66.685 detenuti totali: in pratica 4 prigionieri su dieci aspettavano in carcere, da presunti innocenti, che cominciasse il loro processo o che la giustizia facesse il suo corso. Un’attesa umiliante, che secondo le statistiche, si conclude con una sentenza di non colpevolezza nella metà dei casi.
La conclusione logica è presto detta: al netto della presunzione di innocenza, che dovrebbe valere per il 100 per cento dei detenuti, metà di loro scontano con la custodia cautelare in carcere una pena che alla fine dell’inferno si rivelerà ingiusta. Siamo insomma di fronte a una malattia conclamata che nessuno o non tutti hanno inteso curare. Un male del quale il presidente dell’Unione Camere Penali, Beniamino Migliucci, offre un’anamnesi precisa: “Da quando Tangentopoli impose il processo mediatico come metodo, la custodia cautelare cessò di essere extrema ratio per alimentare la ricerca di consenso intorno alle inchieste giudiziarie”.
“Sulla base delle inchieste del 1992 – annota il giurista che peraltro ha curato la prefazione de “Le lettere a Francesca”, di Enzo Tortora – divenne sempre più preminente quel micidiale triangolo che ha saldato parte della politica, della stampa e della magistratura in un patto sociale giustizialista che Luciano Violante ama definire come la “società giudiziaria”. Andare in carcere in attesa di giudizio, è per il nostro diritto una misura estrema, da ascrivere in ragione di un importante interesse sociale.
Secondo l’articolo 275 del codice penale, dovrebbe in teoria finire nelle patrie galere, in assenza di una piena e fondata colpevolezza, soltanto l’indagato che abbia commesso un reato grave in quanto potrebbe reiterare il suo comportamento, fuggire o inquinare le indagini. “L’abuso della custodia – osserva Alberto Cisterna, già viceprocuratore nazionale antimafia, oggi Gip al Tribunale di Tivoli – è legato a doppio filo all’eccessiva lunghezza dei processi. È spesso un meccanismo anticipatorio della pena”. “E troppo spesso – aggiunge Migliucci – la cautela in carcere risponde al fine improprio di fare pressione sull’indaga-to. Una condotta che ha riflessi assai negativi sul processo, influisce sulla terzietà del giudice e alimenta intorno all’indagato un clima colpevolista in assoluto contrasto con la Costituzione”.
Tra lettera e realtà si spalanca dunque un abisso.
“Per arginare la deriva – chiosa Migliucci – la soluzione è una sola: la separazione delle carriere tra giudici e pm”. Gli abusi in materia sono uno specimen tutto italiano. A fronte di quel 40,1 per cento di detenuti in custodia cautelare fino al 2012, l’Italia presentava percentuali quasi doppie rispetto alla Francia (23,7 per cento) e alla Spagna (19,3), quasi triple rispetto alla Germania (15,3), e nettamente al di sopra della media dei Paesi del Consiglio d’Europa, ferma al 28,5 per cento. Stretta nella tenaglia dell’Europa, del sovraffollamento, degli oneri economici sempre più consistenti destinati ai risarcimenti, il Paese ha fatto negli ultimi sei anni qualche indubbio progresso. Sulla spinta delle riforme che hanno ridotto l’uso della custodia cautelare, gli ospiti dei nostri penitenziari in custodia cautelare sono calati in parallelo in cinque anni dal 43,5 per cento del 2010 al 33,8.
Complice la riforma della custodia cautelare, varata nel maggio scorso dal governo, gli ultimi dati, freschissimi, che il ministero fornisce al Mattino, sono un piccolo barlume di speranza. Al 31 maggio del 2016, sono detenuti nelle carceri italiane 53.873 persone, di cui 8978 in attesa di primo giudizio e 9.399 in attesa di giudizio definitivo.
A conti fatti dunque, più di 18mila detenuti (uno su tre) sono oggi in carcere in regime di custodia cautelare. “Non c’è più un’emergenza numerica – commenta il magistrato Cisterna – ma l’avaria resta. La custodia andrebbe del tutto eliminata responsabilizzando i pm e puntando sul braccialetto elettronico”. “Delegare al Gip – aggiunge il magistrato – è spesso un alibi. Sarebbe meglio puntare su un’udienza preliminare che decide in tempi rapidi sulla base delle prove: o rinvio a giudizio o archiviazione. Un colpo di spugna che però nessuno vuole davvero: quanti posti di lavoro salterebbero?”.
Il dato statistico della custodia, seppure in calo, non può però bastare. Tradotti i numeri in persone e destini, bruciano ad esempio i 1.000 giorni di carcere preventivo, subiti senza processo da Nicola Cosentino e interrotti soltanto di recente. E poi i 21 giorni di carcere subiti dall’infermiera di Piombino, per mesi dipinta come un mostro e poi liberata tra mille scuse. Scuse che nessuno potrà fare mai a S.R., finito in custodia cautelare a San Vittore per il possesso di un’arma, nonostante una cirrosi epatica che l’ha ucciso dopo tre giorni in cella il 3 giugno scorso. Dopo trent’anni, il grido di Tortora è ancora stordente. Il male della custodia cautelare si è forse ridotto ma è ancora tra noi. E continua a mietere vite, dignità e sogni. Francesco Lo Dico

Foto del profilo di Andrea Gentile

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