AVVOCATI: Filippo Satta: “Quest’esame per avvocati è tutto da rifare” (La Repubblica – Affari e Finanza)

LA REPUBBBLICA – Affari e Finanza

Filippo Satta: “Quest’esame per avvocati è tutto da rifare”
INTERVISTA ALL’ATTUALE PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE DI ROMA: “LE PROVE SONO SOLTANTO DEI COMPITI, NON SONO CERTO ADATTE A VALUTARE SE UNA PERSONA È IN GRADO DI SVOLGERE QUESTA IMPORTANTE ATTIVITÀ PROFESSIONALE

Roma. «Come si può pensare di valutare se una persona è in grado di fare l’avvocato con tre compiti come quelli che vengono proposti alle prove d’esame?». Da quale pulpito viene questa predica? Proprio da quello più alto: Filippo Satta è infatti presidente della Commissione d’esame di Roma. Oltre a questo, Satta ha un lungo pedigree: è stato professore ordinario di diritto amministrativo dal 1976 al 2010, ha insegnato presso le Università di Cagliari, Perugia e Tor Vergata e La Sapienza a Roma. Avvocato dal 1966, ha fondato lo Studio legale Satta Romano & Associati, connotato da una forte specializzazione nel diritto amministrativo. Da più parti è stato criticato l’esame per diventare avvocati. Ma le sue parole sono pietre. «La questione è molto semplice: è sbagliato pensare che si possa diventare avvocati con un esame che consiste nella redazione di tre temi scritti e in un esame orale. Qui non siamo all’università. Qui bisogna valutare se una persona ha le capacità professionali per svolgere la funzione di avvocato». Ma le tracce dei compiti scritti non dovrebbero essere scelte proprio per valutare se un praticante può diventare avvocato? «Sì, ma è difficilissimo redigere “tracce”, come si dice, che rappresentino una realtà giuridica complessa, da dipanare. Nella maggior parte dei casi sono tracce teoriche, in un certo senso costruite artificialmente, non riprese dalla vita reale». Da chi sono preparate queste tracce? «Da funzionari ministeriali, soprattutto, anche se intervengono anche dei magistrati. Il problema è però un altro. Bisogna rimettere mano alle procedure d’ingresso nell’avvocatura perché c’è bisogno di buoni avvocati. Non possiamo continuare con il modello del 1936». Qual è la sua proposta? «Si dovrebbero valutare i curricula delle attività svolte come praticanti e prevedere prove scritte che evidenzino la capacità di un aspirante avvocato di affrontare temi complessi. E forse chi prepara le tracce dovrebbe avere una qualche padronanza di come si svolge oggi la professione, invece le tracce vengono preparate da funzionari del ministero della Giustizia». Il Consiglio nazionale forense, cioè il vostro ordine professionale, non interviene in qualche modo nell’iter? «Sì, ma concorre solamente alla nomina dei presidenti delle commissione d’esame». C’è una stranezza, a giudicare dall’esterno, sulle commissioni d’esame. Quella di Milano corregge i compiti degli aspiranti napoletani, quella di Roma corregge i milanesi e quella di Napoli corregge i compiti di Roma. Ora è evidente che questo marchingegno dovrebbe evitare macroscopiche truffe. Eppure le cronache, anche giornalistiche, registrano continuamente delle irregolarità. E quindi che bisognerebbe fare? «Inutile negare che si parli di molti telefonini e molti tablet». Allora che si dovrebbe fare? Qual è la sua ricetta? «Occorrerebbe prima di tutto far pervenire all’esame soltanto i praticanti che uno studio, sotto la sua responsabilità, ha riconosciuto idonei a sostenerlo. Una sorta di “certificazione”. Poi, naturalmente, bisogna rivedere il meccanismo d’esame, come dicevo prima». E se gli studi barassero? «Se uno studio dovesse presentare nel corso del tempo un elevato tasso di praticanti che non passano l’esame, dovrebbe essere chiamato dal Consiglio nazionale forense a dare spiegazioni». (a.bon,)

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