PROCESSO CIVILE: Un obbligo «pesante» anche per chi ha ragione (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE

Un obbligo «pesante» anche per chi ha ragione

La scelta di rendere il tentativo di mediazione obbligatorio per un’ampia area del contenzioso civile è stata di certo una delle più “politicamente” controverse della disciplina italiana sulla mediazione. L’Europa non ce lo impediva, è vero. Una pronuncia della Corte di giustizia del marzo 2010 (“Alassini”) resa su un caso italiano di obbligatorietà ante litteram, relativo al contenzioso telefonico, l’aveva ben chiarito; ed altrettanto aveva fatto, del resto, più in generale, la direttiva 52/2008.
Nonostante ciò, a destare forti perplessità fra i giuristi e proteste nell’avvocatura era stata l’opzione per una obbligatorietà del tentativo appesantita dall’automatico suo convertirsi da “facilitativo” ad “aggiudicativo”, e rafforzata dalla previsione di sanzioni in caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo. I rinvii alla Consulta, da cui sarebbe derivata la sentenza del 2012, sebbene contenessero censure al riguardo, non condussero a un chiarimento sulla compatibilità tra tale disciplina e la garanzia all’azione giurisdizionale pubblica. Infatti, la Corte costituzionale fondò la sua pronuncia censoria su un dato di metodo e non di merito: il “vulnus”, cioè, che l’obbligatorietà aveva inferto alla delega parlamentare. In quello stesso arco di tempo due lodevoli ordinanze di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, rese da alcuni giudici territoriali, avevano paventato altresì il contrasto tra “questa” obbligatorietà e l’ordinamento Ue. Anche tali vicende, però, non avrebbero sortito il sollecitato chiarimento della Corte lussemburghese: il sopraggiungere della pronuncia interna di incostituzionalità aveva infatti determinato la superfluità delle questioni rinviate.
È in un clima così contratto che, nel 2013, il Governo sceglie di reintrodurre il sistema dell’obbligatorietà; assai simile a quello originario, ma con una doppia novità rispetto al passato, affidata agli articoli 5, comma 2-bis, e 8, comma 1. Secondo la prima norma «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale» essa «si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La seconda vuole invece che «durante il primo incontro» il mediatore, chiarite prima la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, inviti poi le parti e i loro avvocati, «ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione», procedendo solo «nel caso positivo (…) con lo svolgimento». Potrebbe pensarsi, interpretando alla lettera tali disposizioni, che le parti dispongano del potere di far fallire il tentativo al primo incontro: il chiamato, non aderendo all’istanza, o, qualsivoglia parte, manifestando espressamente di non voler dar inizio al procedimento.
Un settore della giurisprudenza ha tuttavia preferito una lettura meta-testuale di quelle disposizioni. Si è cosi ritenuto che «la mancata partecipazione personale delle parti senza giustificato motivo al primo incontro di mediazione può costituire, per la parte attrice, causa di improcedibilità della domanda e in ogni caso, per tutte le parti costituite, presupposto per l’irrogazione – anche nel corso del giudizio – della sanzione pecuniaria prevista dall’articolo 8, comma 4-bis, Dlgs n. 28/2010, oltre che fattore da cui desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, c.p.c.»; prescrivendosi anche «che – in caso di effettivo svolgimento della mediazione che non si concluda con il raggiungimento di un accordo amichevole – il mediatore provveda comunque alla formulazione di una proposta di conciliazione, anche in assenza di una concorde richiesta delle parti» (in entrambi i sensi, Tribunale di Vasto 23 giugno 2015); si è peraltro anche detto (dal Tribunale di Roma, ad esempio) valorizzando una controversa norma del decreto attuativo, che il mediatore debba svolgere il tentativo e formulare la proposta, così realizzando la condizione di procedibilità, anche quando al primo incontro vi sia «la sola parte istante». Fatale, in questo quadro, il successivo condannarsi della controparte assente alle sanzioni (articolo 13) che derivano dalla sua (ovvia) non adesione a una proposta conciliativa concepita senza di lei, anche quando dimostri, nel processo, di aver ragione.
Non è troppo per chi rivendichi veder riconosciuta la propria pretesa dinanzi al giudice pubblico, nell’esercizio di quel diritto all’azione che l’articolo 24 della Costituzione solennemente riconosce? Giovanni Raiti

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