PROCESSO CIVILE: Mediazione delle liti sempre con l’avvocato (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE

Mediazione delle liti sempre con l’avvocato
L’accordo raggiunto ha l’efficacia del contratto

L’Italia dispone di un’organica disciplina «sulla mediazione finalizzata alla conciliazione delle liti» dal 2010, grazie al Dlgs 28/2010. Il provvedimento generò da due atti normativi: in modo diretto, dalla delega dell’articolo 60 legge 69/2009; in modo indiretto, dalla direttiva europea 2008/52/CE, che faceva obbligo agli Stati di dotarsi di una disciplina sulla materia strumentale alla composizione stragiudiziale delle liti transfrontaliere (quelle cioè con parti domiciliate o stabilmente residenti in Stati membri diversi dell’Unione): le uniche per le quali l’Unione disponga del potere di armonizzazione normativa nel campo della giustizia civile. Con la delega, il legislatore italiano scelse infatti di dotare il Governo in carica della potestà di dettare una disciplina unitaria che, rispettosa dei principi comunitari, fosse però applicabile anche alle liti civili domestiche e non solo transfrontaliere.
Fondamento politico della disciplina è l’intento di deflazionare la giurisdizione pubblica favorendo il ricorso a uno strumento di composizione dei conflitti significativamente diverso da quello giurisdizionale (o arbitrale). Nella media-conciliazione, infatti, il parametro di definizione del conflitto non è solo quello giuridico, ma ogni altro elemento idoneo a fondare un accordo che possa comporre la lite, eventualmente pure attribuendo un “bene della vita” diverso da quello implicato dalla vicenda originaria di violazione.
Il mediatore lavora dunque come un “ostetrico”, che favorisce la nascita dell’accordo di conciliazione, con efficacia equiparabile al contratto e con forza di titolo esecutivo «per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale» (articolo 12). Tale efficacia presuppone peraltro che l’accordo sia sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che abbiano prestato assistenza, incaricati, anche, di attestarne «la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico».
Tra i punti praticamente più qualificanti di tale riforma:
l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica degli avvocati;
il ritenuto avveramento del tentativo di conciliazione obbligatorio in caso di mancata riuscita al primo incontro;
la previsione di una nuova figura di conciliazione delegata dal giudice, disposta discrezionalmente in qualunque momento del processo anteriore alla precisazione delle conclusioni (e anche in appello), valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, con forza vincolante a pena della improcedibilità sopravvenuta del procedimento;
la previsione che il giudice «alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formuli egli stesso alle parti una proposta transattiva o conciliativa» che non potrà costituire motivo di sua ricusazione o astensione;
la riduzione dei costi e dei tempi del procedimento (tre mesi).
Il connotato della mediazione quale istituto incentrato sul consenso spontaneo delle parti trova, nella disciplina italiana, un doppio temperamento. In primo luogo, per la reiterata previsione di un ampio settore del contenzioso assoggettato all’obbligatorietà del tentativo di mediazione, valevole quale condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale pubblica. In secondo luogo, a causa della previsione di una funzione di “proposta” dell’accordo, affidata al mediatore, per il caso in cui le parti non abbiano saputo, da sole, trovare un assetto conciliativo condiviso.
Tale seconda figura della mediazione (“aggiudicativa”, a differenza della prima, detta invece “facilitativa”) finisce col compulsare la volontà delle parti, essendosi previsto che la mancata loro adesione alla proposta conciliativa del mediatore è causa di sanzioni nel successivo processo giurisdizionale di tutela. Più esattamente, se il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice dovrà, innanzitutto, negare alla parte che ha rifiutato la proposta il ristoro per le spese sostenute nel periodo successivo alla formulazione della stessa; inoltre, dovrà condannarla «al rimborso delle spese sostenute dalla controparte, relative allo stesso periodo, e al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato». Diversa la soluzione quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde invece interamente al contenuto della proposta. In questo caso, infatti, il giudice, se ricorrono «gravi ed eccezionali ragioni» (che dovrà motivare), può escludere la rifusione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto ad eventuali “esperti” intervenuti nel procedimento in considerazione delle loro competenze tecniche implicate dalla lite.
Tale disciplina sanzionatoria, fatta cadere con la pronuncia della Consulta 272/2012, poiché ritenuta dipendente da quella sulla obbligatorietà del tentativo, giudicata incostituzionale per violazione della delega, è stata, tuttavia, reiterata. Essa è nuovamente vigente, infatti, per effetto del più rilevante intervento riformatore sulla materia avutosi nel 2013 (con il Dl 69/2013, cosiddetto decreto del Fare) mediante cui il Governo, stavolta libero da alcun vincolo di delega, ha reintrodotto anche il regime di obbligatorietà del tentativo per molte controversie. Giovanni Raiti

Foto del profilo di Andrea Gentile

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