L’INTERVENTO/3: Quel fuoco amico dei magistrati sull’anticorruzione di Lionello Mancini (Il Sole 24 Ore)

IL SOLE 24 ORE

Quel fuoco amico dei magistrati sull’anticorruzione

di Lionello Mancini

lun.27 – Ha mille volte ragione Piercamillo Davigo a scagliare le sue brillanti folgori sui politici, sui disastri provocati dai reati economici, sugli indagati per pedofilia cui nessuno affiderebbe i figli in attesa della Cassazione. Davigo è proprio così, anche a telecamere spente: spiritoso, puntuto, veloce. Infatti la politica si arrabbia quando ne evoca lo smarrito senso di vergogna e l’immobilismo sui rimedi urgenti da adottare perché la giustizia funzioni meglio. Ma ha mille volte torto il presidente dell’Anm quando dirige tanta energia mediatica – inedita per il sindacato delle toghe – contro le fragili difese fin qui faticosamente allestite per arginare la corruzione, irridendone il senso e sminuendone l’efficacia.
Pochi giorni fa, l’editorialista Moisés Naìm elencava i Paesi sudamericani che stanno iniziando a combattere la corruzione, diffusa ed endemica a quelle latitudini. «Giudici e procuratori coraggiosi – scrive Naìm – combattono con successo i corrotti, anche quelli che sembravano intoccabili. Ma la lotta alla corruzione non deve dipendere dalla buona volontà o dal coraggio degli individui, bensì dalle regole che la disincentivino, eliminino l’impunità, aumentino la trasparenza». L’azione repressiva di per sé è la fase primordiale, necessaria e insufficiente per sconfiggere il fenomeno. Così è stato per Tangentopoli, non seguita da un utile cambio di regole. Perché l’ambiente sociale non migliora con un processo via l’altro, ma solo con nuovi assetti che, muovendo dalle inchieste, le superino in visione strategica.
È come se i magistrati, per bocca del loro leader sindacale esprimessero fastidio e sfiducia per l’Autorità anticorruzione, la quale tuttavia non nega l’utilità dell’azione penale, ma cerca di prevenirla. Ma se l’Anac è inutile, quale dovrebbe essere il passo successivo? Scioglierla e affidare solo alle toghe il controllo di legalità?
Tutto si può discutere, ma resta che, sbeffeggiando il codice appalti, il whistleblowing, i piani anticorruzione di enti e amministrazioni, l’ombra dell’inutilità e dell’azione di facciata si allunga a tutte le esperienze di antimafia partecipata, antesignane della vigilanza civica che contribuisce a contrastare la corruzione e ne denuncia gli episodi. Tutte infrastrutture istituzionali e sociali ben sperimentate nei Paesi spesso citati come esempi da imitare.
Un simile fuoco amico sugli alleati soddisfa certamente i palati togati, tanto golosi di autoreferenzialità («Siamo l’unica garanzia di onestà») quanto rigidamente corporativi, ma i cui limiti e inadeguatezze Davigo conosce a fondo anche perché – date le sue doti tecniche e personali – è tra i nomi più gettonati per difendere i colleghi sottoposti alla sezione disciplinare del Csm. Eppure insiste nel calamitare ogni compito verso la categoria: se non si intercetta, non si arresta, non si condanna, tutto il resto è inutile. E anche se è ovvio che l’azione repressiva si può attivare solo dopo che un reato è avvenuto, non si comprende in che modo lo sforzo diffuso di prevenzione stimolato dall’Anac possa ostacolare le indagini, tanto da provocare la sarcastica e dannosa reazione dei titolari dei processi.
Forse la magistratura associata ritiene che la via giusta sia quella indicata dai sindaci eletti per il Movimento 5 Stelle, cioè quella di portare in procura ogni atto che desti i loro sospetti. Ma anche qui le conseguenze sono ovvie e controproducenti: stante l’obbligo di azione penale, i pubblici ministeri diventerebbero i consulenti-supplenti delle giunte comunali, mentre sarebbe, piuttosto, l’ora che anche la politica si assumesse le proprie responsabilità, come hanno fatto (o tentano di fare) le imprese con i loro protocolli, i codici etici, le white list, il rating di legalità.
Tutto fumo negli occhi, pensano Davigo e i suoi, almeno quanto le segnalazioni di operazioni sospette o i modelli della legge 231. Che sono, invece, i passaggi giusti per raggiungere l’obiettivo finale: ridurre la corruzione modificando alla radice i comportamenti delle persone, anche giuridiche.

Foto del profilo di Andrea Gentile

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