AVVOCATI: Le spine della voluntary disclosure avvocati al lavoro sui risvolti fiscali (La Repubblica – Affari e Finanza)

LA REPUBBLICA – Affari e Finanza

Le spine della voluntary disclosure avvocati al lavoro sui risvolti fiscali
IL RIMPATRIO (O LA REGOLARIZZAZIONE) DEI CAPITALI ILLECITAMENTE DETENUTI ALL’ESTERO NON HA ESAURITO IL LAVORO DEI PROFESSIONISTI IMPEGNATI CON LE PRATICHE. PRENDE CORPO L’IDEA DI UNA “SECONDA FASE” DELLA PROCEDURA

Milano. Il rimpatrio (o la regolarizzazione) dei capitali illecitamente detenuti all’estero non ha esaurito il lavoro dei professionisti impegnati con le pratiche della voluntary disclosure. Che anzi proprio in questa fase rilevano una serie di difficoltà legate ad aspetti poco chiari della normativa. Mentre sullo sfondo prende corpo l’ipotesi di una seconda fase di regolarizzazione. «Quanto agli aspetti tecnici, non è stata chiarita del tutto la modalità di compilazione del quadro Rw», lamenta Fulvia Astolfi, partner responsabile del tax di Hogan Lovells. Il riferimento è alla parte di Unico 2016 che deve riempire chiunque abbia detenuto un patrimonio in uno Stato estero anche solo per parte del 2015. «Considerato che la scadenza è fissata per il 6 luglio, non c’è da attendersi chiarimenti in merito dall’amministrazione finanziaria». Vi sono poi questioni di sostanza che assumono un rilievo anche maggiore. «Con la voluntary disclosure non è solo il fisco ad apprendere per la prima volta l’esistenza di patrimoni in capo al dichiarante, ma il discorso spesso si estende anche alla sua cerchia familiare», ricorda Eugenio Briguglio, partner di Biscozzi Nobili. Questo può creare tensioni, che i consulenti (chiamati anche a svolgere un ruolo più da piscologici che da esperti di normative) possono cercare di prevenire o quanto meno attenuare. «Le situazioni cambiano da famiglia a famiglia, per cui andranno definite soluzioni personalizzate», spiega. «Con la voluntary disclosure il patrimonio diventa noto non solo all’amministrazione finanziaria ma potenzialmente anche ai familiari delle persone interessate», ricorda Paolo Ludovici, fondatore di Ludovici& Partners. «Questa consapevolezza può essere oggetto di tensioni con ricadute molto pesanti, dato che vengono a coinvolgere la sfera degli affetti». A questo punto si apre la fase delle decisioni. «Per chi si è limitato alla regolarizzazione, è il caso di conservare il patrimonio all’estero o conviene portarlo fisicamente in Italia? E con quali forme di protezione contro i rischi di eventi catastrofici?». Decisioni non di poco conto, analizza Ludovici. Carlo Galli, partner di Clifford Chance e responsabile dipartimento Tax, segnala anche un’altra problematica. «Dopo la fase di regolarizzazione, si apre ora quella della pianificazione. Quindi si tratta di passare al setaccio gli investimenti in corso e di capire se sono in linea con le esigenze e le aspirazioni del singolo contribuente». Un lavoro che vede i fiscalisti lavorare gomito a gomito con i consulenti finanziari. «Il ragionamento da fare non riguarda solo le potenzialità o meno di un’asset class, ma anche l’impatto della tassazione sui vari prodotti d’investimento», spiega Galli. «Ad esempio, gli hedge fund che erano stati sottoscritti all’estero, in Italia non godono di aliquote favorevoli e in molti casi potrebbe essere il caso di uscire». L’assistenza dei professionisti, ricorda Stefano Loconte, fondatore e managing di Loconte & Partners, «arriva a individuare soluzioni che, partendo dalla mappatura dei rischi, consentano di ottenere la diversificazione degli stessi e la protezione del patrimonio». In questo ambito il valore aggiunto degli studi d’affari che possono contare su competenze diversificate è dato dalla capacità di tagliare i rami secchi salvaguardando unicamente i veicoli effettivamente in grado di generare un vantaggio per il cliente. Oltre a questo, occorre poi provvedere alla manutenzione delle strutture esistenti, ad esempio mediante la chiusura di alcuni veicoli giuridici che non sono in linea con l’evoluzione normativa degli ultimi anni. «Occorre decidere quale sarà d’ora in avanti lo strumento nel quale far confluire le attività», spiega Ludovici. «Società semplice, società di capitali residente o meno, contratto di assicurazione sulla vita, trust e così via». Una scelta che non può prescindere da una visione di lungo termine che comprenda anche la programmazione della successione. A questo proposito, nel mercato si va ormai diffondendo la convinzione che le aliquote saranno innalzate a breve, dato che in Parlamento è stata depositata una proposta di legge in materia, «per cui occorre valutare se ad esempio è il opportuno sottoscrivere polizze vita e/o mandati fiduciari, mantenendo i conti all’estero», spiega Raul-Angelo Papotti, partner di Chiomenti, per il quale «la risposta varia di caso in caso». Di sicuro, sottolinea l’esperto, «tra chi ha fatto disclosure vi è un diffuso interesse a capire come attrezzarsi da qui in avanti». Il ragionamento da fare non è relativamente solo alla convenienza fiscale delle varie opzioni in campo. «Ci sono strumenti molto utilizzati all’estero per assicurare la conservazione del patrimonio, che invece in Italia devono fare i conti con un quadro molto incerto», ricorda Giuliano Foglia, socio fondatore dello studio legale e tributario Foglia Cisternino & Partners. Il riferimento è in particolare ai trust, che permettono un elevato grado di protezione in caso di successioni o di vicende familiari complesse e litigiose. «Eppure vengono poco utilizzati per le incertezze fiscali derivanti dall’assenza di una normativa organica, dalla giurisprudenza altalenante e dai pochi chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate». Per Foglia è il momento che il legislatore si faccia carico di chiarire i contorni del quadro giuridico in tema di trust». Il compito di avvocati e commercialisti è diverso in relazione a quanti, pur detenendo capitali ignoti al fisco italiano, non hanno aderito alla voluntary disclosure. «In questi casi», spiega Alessandro Mainardi, partner responsabile del dipartimento tax di Orrick, «ci sono due strade: procedere con il ravvedimento operoso o attendere l’annunciata voluntary 2». Quest’ultima è un’ipotesi sempre più concreta secondo gli addetti ai lavori. «Non abbiamo segnali diretti da parte del legislatore e dell’amministrazione finanziaria», riflette Astolfi, «ma una riapertura della voluntary disclosur e sarebbe in effetti nell’ordine delle cose, considerato che negli ultimi mesi l’Italia ha firmato nuovi accordi con paesi esteri per lo scambio automatico delle informazioni. È probabile che si vada, come già avviene peraltro all’estero, verso una voluntary perenne, con condizioni tutte da definire». Luigi Dell’Olio

Foto del profilo di Andrea Gentile

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